DLGS 231-2001: La natura della responsabilità “amministrativa” degli enti
L’introduzione della responsabilità da illecito penale in capo ai soggetti giuridici diversi dalla persona fisica è un’innovazione epocale per l’ordinamento giuridico italiano.
A tale risultato si è giunti in forza:
a) degli impegni internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione (convenzioni e protocolli – per maggiori informazioni cliccare qui);
b) dei modelli di responsabilità degli enti sviluppati nei paesi di common law;
c) degli studi criminologici sull’evoluzione della criminalità riconducibili alla “politica d’impresa”;
d) dell’evoluzione della dottrina che ha posto l’accento sull’insufficienza di un sistema punitivo riferito esclusivamente alla persona fisica.
Inquadramento storico
La tradizione penale europea, infatti, si è sviluppata sin dalle origine in senso antropocentrico escludendo la responsabilità penale delle persone giuridiche in quanto prive di partecipazione psichica al reato, il che renderebbe impossibile l’individuazione dell’elemento soggettivo del reato (ossia del dolo o della colpa che sono atteggiamenti tipicamente umani).
Detta concezione è tradizionalmente espressa con il brocardo latino “societas delinquere non potest” la cui origine non risale, però, al diritto romano, ma al grande canonista medioevale Sinibaldo de’ Fieschi, altrimenti noto come papa Innocenzo IV (1243-1254), il quale elaborò la teoria della cd. “persona ficta” ossia di persona giuridica come ente astratto, centro d’imputazione di diritti e obblighi distinto dalle persone fisiche che la compongono.
“… cum collegium in causa universitatis fingatur una persona, dignum est, quod per unum iurent, licet per se iurare possint, si velint… et etiam propter facilitatem ponendi et respondendi, alias autem quilibet per se in animam suam iurare debet” (Commentario super libros quinque decretalium, c. presentium de testibus et attestationibus, ed. Francofurti ad Moenum, 1570 – canone 57 X, 2, 20.
Sinibaldo precisa che è opportuno (dignum est) che una collettività (collegium) coinvolta in una causa che la riguarda come ente (in causa univesitatis) sia considerata come una sola persona (fingatur una persona) in modo che attraverso una sola persona possano giurare tutti i membri della collettività (quod per unum iurent, licet per se iurare possint). Allo stesso modo, ossia attraverso un’unica persona, la collettività può più facilmente agire e difendersi in giudizio (etiam propter facilitatem ponendi et respondendi).
Poste in tal modo le basi teoriche per il riconoscimento di soggetti giuridici diversi dalla persona fisica, Sinibaldo afferma che la collettività non può delinquere perchè è una mera finzione, un “nomen iuris”:
“Universitas autem non potest excommunicari: quia impossibile est quod universitas delinquat: quia universitas, sicut et capitulum, populus, gens, et huismodi, nomina sunt iuris, et non personarum “- De sententia excommunicationis – canone 53 X, 5, 39.
Si noti che tali elaborazioni teoriche nascevano da necessità eminentemente pratiche quali il dover decidere se processare e punire (magari con la scomunica (excommunicari) intere collettività colpevoli di liti per il controllo delle terre, rivolte contro il papa o l’imperatore, disordini in tempo di carestia o, peggio, eresie.
Si tratta, in ogni caso, di una teoria in stato ancora embrionale come conferma il fatto che lo stesso Sinibaldo, in altri passi della sua opera, ammette la possibilità di una sanzione pecuniaria a carico della collettività. Va poi ricordato che altri grandi giuristi (su tutti Bartolo da Sassoferrato, 1314-1357) ammettevano invece la responsabilità penale della persona giuridica.
La possibilità di punire una collettività rimase diffusa in Europa sino all’Illuminismo quando il primato dell’individuo da un lato e l’affermarsi degli Stati nazionali dall’altro resero inutile il ricorso alla pena collettiva, considerata un retaggio del buio Medioevo.
Il medesimo concetto comparirà qualche secolo più tardi anche nella common law dove il Lord Cancelliere Edward Thurlow (1731-1806) per escludere la responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto inglese affermerà: “Did you ever expect a corporation to have a conscience, when it has no soul to be damned, and no body to be kicked?” (cfr. G. CRISCUOLI, Introduzione allo studio del diritto inglese. Le fonti, Milano, 2000, pag. 531.
Fu il Savigny, ossia uno dei massimi esponendi della dottrina romanistica del tardo ottocento, a riprendere ed enunciare compitamente la teoria della “persona ficta” accennata da Innocenzo IV.
Secondo il grande giurista tedesco, il fatto che le persone giuridiche fossero una mera finzione giuridica escludeva in radice la possibilità che la loro capacità giuridica potesse estendersi oltre la sfera dei diritti patrimoniali.
In altre parole, le persone giuridiche, nel pensiero del Savigny, possono avere un loro patrimonio giuridico ed essere rappresentate attraverso la volontà di determinati individui (che sempre grazie ad una finzione viene imputata all’ente come volontà sua propria), ma poiché esistono nel diritto solo artificialmente ed entro gli stretti confini dei rapporti patrimoniali, al di fuori di tale ambito … non esistono.
Quindi, non possono commettere reati e tutti i fatti che generalmente sono considerati reati ad esse riferibili sono in realtà commessi dalle persone fisiche che le governano, o comunque ne fanno parte:
“... le persone giuridiche sono «mere astrazioni inanimate non percepibili con i sensi. La loro esistenza è pura finzione accordata loro dall’ordinamento per scopi leciti e, qualora queste commettano un reato verrebbe meno la loro soggettività giuridica e con essa la conseguente possibilità di assoggettarle ad una pena...” cfr. Savigny, Sistema del diritto
romano attuale (trad. it. Vittorio Scialoja), II, Torino 1888, pag. 236-237.
La portata innovativa del D.Lgs.
Sulla base di tali annotazioni storiche è possibile comprendere come e perchè si sia giunti ad un diritto penale “antropomorfo” in cui si afferma, in modo categorico, che “societas delinquere non potest” .
Da ciò deriva, a ben guardare, quello che è considerato uno dei principi fondamentali del moderno diritto penale, ossia la personalità della responsabilità penale intesa come esclusiva responsabilità della persona fisica, concetto che è annoverato quale principio fondamentale anche nel nostro ordinamento giuridico:
– “la responsabilità penale è personale” (cfr. art. 27 Cost. comma primo);
– “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (cfr. art. 27 Cost. terzo comma).
Ben si comprende, quindi, in tale quadro la portata innovativa dell’affermazione della responsabilità diretta degli enti collettivi in conseguenza della commissione di un reato e la difficoltà di affermare la natura penale di tale responsabilità in un contesto che sembra negarla a priori.
D’altro canto, lo stesso Legislatore nel D.Lgs 231/2001 l’ha definita “responsabilità amministrativa” benchè nella Relazione accompagnatoria al D.Lgs si escluda che tale denominazione abbia anche un valore classificatorio esplicito.
Si è discusso a lungo, in dottrina e giurisprudenza, sul punto perchè il problema non è puramente teorico, ma influisce, stante le lacune presenti nel D.Lgs ed i frequenti rinvii a fini di coordinamento a normativa esterna in esso contenuti, sull’applicazione pratica della normativa e, soprattutto, sulla sua conformità alla Costituzione ed ai principi dell’ordinamento giuridico.
Natura della responsabilità
primo orientamento: amministrativa
Secondo un primo orientamento la responsabilità delineata dal D.Lgs. 231 è di natura amministrativa perchè:
– non è possibile individuare la colpevolezza, ossia l’elemento soggettivo del reato, in un soggetto inanimato;
– non è possibile parlare di rieducazione del condannato in relazione ad un soggetto inanimato;
– non è possibile applicare ad un soggetto inanimato sanzioni che possano ledere il senso di umanità (che esso, in quanto inanimato, non ha);
– la disciplina della prescrizione (quinquennale) dettata dall’art. 22 del D.Lgs 231 che prevede la sospensione della stessa dal momento dell’applicazione all’ente delle misure cautelari e/o dalla contestazione dell’illecito da parte del Pubblico Ministero sino alla conclusione del processo, si rifà al modello previsto dalla L. 689/1981 per gli illeciti amministrativi e non alla disciplina della prescrizione contenuta nel codice penale (ante c.d. riforma Bonafede entrata in vigore nel gennaio 2000);
– la disciplina delle vicende modificative dell’ente (artt. 28-31 D.Lgs. 231/2001) è di stampo civilistico con la conseguenza che la responsabilità “amministrativa” da reato permane in capo all’ente anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, all’evidente scopo di evitare che la modifica formale della veste giuridica dell’ente diventi strumento di esenzione dalla responsabilità;
– assenza – nel D.Lgs 231 – dell’istituto della sospensione condizionale della pena così come accade, nella L. 689/1981 per gli illeciti amministrativi.
secondo orientamento: penale
In base ad un secondo orientamento si tratterebbe, invece, di una vera e propria responsabilità penale perchè:
– l’uso della locuzione “responsabilità amministrativa” dipende da una mera scelta politica e non ha alcuna valenza effettiva nell’individuazione della natura della responsabilità;
– sussiste identità fattuale tra il reato e l’illecito attribuito all’ente e, quindi, l’interesse violato è della stessa natura (penale);
– l’accertamento della responsabilità dell’ente è affidato al giudice penale così come al Pubblico Ministero è affidato il compito di sostenere l’accusa in giudizio (artt. 36-38 D.Lgs. 231);
– la disciplina normativa è ricca di istituti tipici del diritto penale quali:
1) la punibilità del tentativo (art. 26);
2) il principio di successione delle leggi nel tempo e di retroattività della norma più favorevole (art. 3);
3) la rilevanza extraterritoriale attribuita all’illecito dell’ente (art. 4);
4) la previsione di un sistema di misure di sicurezza che, seppure definite amministrative, sono di ispirazione penale.
terzo orientamento: mista
Secondo un terzo orientamento la responsabilità attribuita agli enti dal D.Lgs. 231 configurerebbe un “tertium genus” di natura mista penale/amministrativa. Tale soluzione è espressamente menzionata nella Relazione accompagnatoria del D.Lgs. a conferma che il Legislatore ha preferito non affermare espressamente la natura esclusivamente penale o amministrativa della responsabilità al fine di evitare problemi di costituzionalità della normativa stessa.
La giurisprudenza: Cass. SU 38343/2014 “ThyssenKrupp”
Tale ultimo orientamento sembra oggi prevalere in giurisprudenza.
La Suprema Corte, infatti, dopo aver inizialmente affermato la natura amministrativa della responsabilità dell’ente ha optato da ulitmo per la teoria del “tertium genus” nella notissima sentenza “ThissenKrupp” (Cass. SU 38343/2014).
Tale ultima sentenza pur affrontando la questione solo in modo incidentale, cerca di darne un’inquadramento complessivo e definitivo della stessa ai parr. 60-63 della motivazione di cui, per chiarezza logica ed espositiva, pare il caso di riportare un ampio stralcio:
“… 60. La natura della responsabilità dell’ente.
… L’introduzione della responsabilità dell’ente con la L. n. 231 ha costituito una grande innovazione nella sfera del diritto punitivo ed ha alimentato una letteratura ormai vastissima.
Non meno rilevante e significativo appare lo sforzo giurisprudenziale volto a concretizzare l’applicazione della nuova normativa. Di tale copiosa produzione non è possibile offrire qui una sintesi completa. Si tratteranno, brevemente, solo le questioni implicate dai motivi di ricorso.
Il primo e più lungamente dibattuto tema riguarda la natura del nuovo sistema sanzionatorio.
Al riguardo non vi è accordo in dottrina.
Secondo alcuni si sarebbe di fronte ad una responsabilità di tipo amministrativo, in aderenza, del resto, all’intestazione della normativa.
Secondo altri, invece, la responsabilità in questione sarebbe sostanzialmente di tipo penale.
Un ultimo indirizzo reputa che si sia in presenza di un tertium genus.
La tesi della natura amministrativa della responsabilità argomenta dalla qualificazione normativa in tal senso; dalla disciplina della prescrizione e delle vicende modificative dell’ente; dall’assenza di una disposizione afferente alla sospensione dell’esecuzione della sanzione.
La tesi penalistica trae argomento fondante dalla commissione di un reato quale presupposto della responsabilità dell’ente.
Si parla, così, di fattispecie plurisoggettiva eventuale, o a concorso necessario, ovvero di fattispecie complessa e necessariamente plurisoggettiva. Ma gli argomenti sono molteplici: l’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella dell’autore del reato; la giurisdizione penale; l’impronta penalistica delle severe sanzioni; la rilevanza del tentativo; la possibilità di rinunziare all’amnistia.
Il terzo indirizzo, pur rimarcando i tratti penalistici della normativa, preferisce valorizzare l’autonomia del sottosistema di cui si parla, entro il più ampio quadro del sistema punitivo che comprende sia l’illecito penale che quello amministrativo.
Si riprendono le considerazioni esposte nella Relazione al D.Lgs. n. 231 per sottolineare che si è in presenza di una articolato sistema di responsabilità da reato che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo.
Si tratterebbe, peraltro, di un sottosistema distinto ma strettamente connesso al diritto penale: una sorta di terzo binario del diritto criminale.
61. La giurisprudenza in proposito.
Anche in giurisprudenza si riscontrano indirizzi diversi.
In alcune pronunzie, sia pure solo incidentalmente, queste Sezioni unite hanno affermata la natura amministrativa della responsabilità da reato (Sez. U, n. 34476 del 23/01/2011, Deloitte&Touche, Rv. 250347; Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv.258647. Nello stesso senso Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255369; Sez. 4, n. 42503 del 25/06/2013, Ciacci, Rv. 257126).
E’ nel complesso orientata in senso penalistico altra, complessa pronunzia delle Sezioni unite (Sez. U., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti, Rv. 239922- 923-924-925-926-927) che rimarca l’architettura normativa complessa del nuovo istituto che evidenzia una fisionomia ben definita, e segna l’introduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di apposite regole quanto alla struttura dell’illecito, all’apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell’ente, al procedimento di cognizione e a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale.
Il sistema sanzionatorio proposto dal D.Lgs. n. 231 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto penale –per così dire – “nucleare”.
La responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune.
Il criterio d’imputazione del fatto all’ente è la commissione del reato “a vantaggio” o “nell’interesse” del medesimo ente da parte di determinate categorie di soggetti.
V’è, quindi, una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale.
Pur se la responsabilità dell’ente ha una sua autonomia, è imprescindibile il suo collegamento alla oggettiva realizzazione del reato, integro in tutti gli elementi strutturali che ne fondano lo specifico disvalore, da parte di un soggetto fisico qualificato (Nello stesso senso Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957).
Altro filone della giurisprudenza (Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247665-666; Sez. 6, n. 36083 del 09/07/2009, Mussoni, Rv. 244256) ritiene, invece, che il D.Lgs. n. 231 abbia introdotto un tertium genus di responsabilità rispetto ai sistemi tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo un’autonoma responsabilità dell’ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei reati espressamente elencati da parte un soggetto che riveste una posizione apicale, sul presupposto che il fatto-reato “è fatto della società, di cui essa deve rispondere”.
62. Le questioni di legittimità costituzionale.
Le dispute definitorie e classificatorie di cui si è doverosamente dato conto possono essere senz’altro collocate nell’ambito delle disquisizioni d’impronta prevalentemente teoretica.
Il Collegio considera che, senza dubbio, il sistema di cui si discute costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole. Colgono nel segno, del resto le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa in esame quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia.
Parimenti non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo; e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento.
Sicchè, quale che sia l’etichetta che si voglia imporre su tale assetto normativo, è dunque doveroso interrogarsi sulla compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale, seguendo le sollecitazioni difensive.
Al riguardo la Corte di cassazione si è ripetutamente interrogata pervenendo a ben meditate conclusioni, che devono essere qui ribadite, circa l’inesistenza di alcun vulnus costituzionale.
E’ senz’altro da escludere che sia violato il principio della responsabilità per fatto proprio.
Il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell’ente, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come “proprio” anche della persona giuridica, e ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda: la persona fisica che opera nell’ambito delle sue competenze societarie, nell’interesse dell’ente, agisce come organo e non come soggetto da questo distinto; nè la degenerazione di tale attività funzionale in illecito penale è di ostacolo all’immedesimazione (in tal senso, particolarmente, Sez. 6, Scarafia, cit.).
Parimenti è da escludere che il sistema violi il principio di colpevolezza.
Di certo, però, tale principio deve essere considerato alla stregua delle peculiarità della fattispecie, affatto diversa da quella che si configura quando oggetto dell’indagine sulla riprovevolezza è direttamente una condotta umana.
Qui il rimprovero riguarda l’ente e non il soggetto che per esso ha agito: sarebbe dunque vano e fuorviante andare alla ricerca del coefficiente psicologico della condotta invocato dal ricorrente; ciò tanto più quando l’illecito presupposto sia colposo giacchè, come si è già avuto occasione di rimarcare, la colpa presenta essa stessa connotati squisitamente normativi che ne segnano il disvalore.
Occorre allora ricostruire in guisa diversa quella che solitamente viene denominata colpa d’organizzazione, considerandone il connotato squisitamente normativo.
Si deve considerare che il legislatore, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale.
Tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello che individua i rischi e delinea la misure atte a contrastarli.
Non aver ottemperato a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa d’organizzazione.
Al riguardo, peraltro, non si configura un’inversione dell’onere della prova.
Come la Corte di cassazione ha già avuto modo di porre in luce (Sez. 6, Scarafia cit.), la responsabilità dell’ente si fonda sulla indicata colpa di organizzazione.
Il riscontro di tale deficit organizzativo consente la piana ed agevole imputazione all’ente dell’illecito penale. Grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell’interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende “per rimbalzo” dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo ente.
La condivisa pronunzia considera altresì che militano a favore dell’ente, con effetti liberatori, le previsioni probatorie di segno contrario di cui al D.Lgs. n. 231, art. 6, afferenti alla dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Nessuna inversione dell’onere della prova è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al D.Lgs. n. 231, art. 5, e la carente regolamentazione interna dell’ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria.
….
63. Il criterio d’imputazione oggettiva.
Il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5 detta la regola d’imputazione oggettiva dei reati all’ente: si richiede che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio.
…
Secondo l’impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al D.Lgs., i due criteri d’imputazione dell’interesse e del vantaggio si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione.
Si ritiene che il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologia del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; e che il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
Non è mancata, tuttavia, qualche voce dissenziente che ha ritenuto che i due criteri abbiano natura unitaria.
Il criterio d’imputazione sarebbe costituito dall’interesse, mentre il vantaggio potrebbe al più rivestire un ruolo strumentale, probatorio, volto alla dimostrazione dell’esistenza dell’interesse.
La tesi dualistica trova accoglimento anche in giurisprudenza (Sez. 2, n. 3615 del 20/12/2005, D’Azzo, Rv. 232957; Sez. 5, n. 10265 del 28/11/2013, dep. 2014, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; Sez. 6, n. 24559 del 22/05/2013, House Building s.p.a., Rv. 255442).
….
Di ben maggiore interesse è invece il fatto che l’art. 25-septies ha segnato l’ingresso dei delitti colposi nel catalogo dei reati costituenti presupposto della responsabilità degli enti, senza tuttavia modificare il criterio d’imputazione oggettiva di cui si è detto, per adattarlo alla diversa struttura di tale categoria di illeciti.
E’ allora insorto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell’evento che caratterizza gli illeciti colposi ed il finalismo che è sotteso all’idea di interesse.
D’altra parte, nei reati colposi di evento sembra ben difficilmente ipotizzabile un caso in cui l’evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell’ente.
Tale singolare situazione ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile. E’ la tesi sostenuta dal ricorrente.
Tali dubbi e le estreme conseguenze che se ne desumono sono infondati.
Essi condurrebbero alla radicale caducazione di un’innovazione normativa di grande rilievo, successivamente confermata dal D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l’art. 25-undecies che ha esteso la responsabilità dell’ente a diversi reati ambientali.
Il problema prospettato deve essere allora risolto nella sede propria, che è quella interpretativa.
I risultati assurdi, incompatibili con la volontà di un legislatore razionale, cui condurrebbe l’interpretazione letterale della norma accredita senza difficoltà l’unica alternativa, possibile lettura: i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico.
Tale soluzione non determina alcuna difficoltà di carattere logico: è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e quindi colposa sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio.
Il processo in esame ne costituisce una conferma.
D’altra parte, tale soluzione interpretativa, oltre a essere logicamente obbligata e priva di risvolti intollerabili dal sistema, non ha nulla di realmente creativo, ma si limita ad adattare l’originario criterio d’imputazione al mutato quadro di riferimento, senza che i criteri d’ascrizione ne siano alterati.
L’adeguamento riguarda solo l’oggetto della valutazione che, coglie non più l’evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell’ordinamento penale.
Tale soluzione non presenta incongruenze: è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente…”.
to be continued