Il diritto al tempo del coronavirus: il contagio come infortunio sul lavoro
Il D.L. n. 18 del 17 marzo 2020 (cd. decreto “Cura Italia”) convertito, con modificazioni, nella L. n. 27 del 24 aprile 2020, contiene due norme fondamentali per la qualificazione giuridica del contagio in ambito lavorativo.
Si tratta degli articoli 26 comma 1 e 42 comma 2.
L’art. 26, rubricato “misure urgenti per la tutela del periodo di sorveglianza attiva dei lavoratori del settore privato“, così recita al comma 1:
“Il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva …. dai lavoratori dipendenti del settore privato, è equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento e non è computabile ai fini del periodo di comporto“.
L’art. 42, rubricato “disposizioni INAIL” così recita al comma 2:
“Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato.
Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro“.
Le due norme disciplinano le seguenti fattispecie:
a) art. 26 comma 1: il caso in cui un lavoratore venga contagiato dal virus fuori dell’attività lavorativa;
b) art. 42 comma 2: il caso in cui un lavoratore venga contagiato dal virus durante l’attività lavorativa.
Nel primo caso, ossia contagio extra-lavorativo, il periodo trascorso in quarantena e/o permanenza domiciliare fiduciaria è qualificato come “malattia” nell’ambito del rapporto di lavoro e del conseguente trattamento economico spettante al lavoratore. A tali situazione si aggiunge, ovviamente, l’eventuale periodo di ricovero sulla cui natura di malattia non vi sono dubbi perchè il lavoratore non si trova a casa, ma presso una struttura sanitaria.
Nel secondo caso, ossia se il lavoratore viene contagiato dal virus durante il lavoro, la situazione viene considerata infortunio sul lavoro.
Tale norma ha scatenato numerose polemiche, soprattutto a seguito della Circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 esplicativa del DL 18, laddove si legge (pag. 7 in alto) che la “causa virulenta è equiparata a quella violenta“.
Numerose sono state le prese di posizione contrarie a detta norma, soprattutto da parte di imprenditori e Confindustria sul presupposto che dalla stessa possa derivare a carico del datore di lavoro un’indebita estensione di responsabilità civile e penale in materia di infortuni sul lavoro.
Tale conclusione è frettolosa e giuridicamente erronea, anche se il tema della responsabilità del datore di lavoro conseguente al contagio da Covid-19 del lavoratore merita, nell’attuale situazione di emergenza, una riflessione approfondita.
Procedendo con ordine, va preliminarmente osservato che:
- La tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro trova fondamento in Costituzione ove si afferma che la salute è diritto fondamentale di ciascun individuo (art. 32 Cost.) e che l’iniziativa economica privata, seppur libera , “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41 commi 1 e 2).
Ciò significa che la libertà d’impresa non può essere esercitata a scapito del lavoratore. Di conseguenza, l’obbligo di sicurezza (che della libertà d’impresa è un limite) è sempre stato interpretato dalla giurisprudenza in maniera rigorosa. - L’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro il cd. “obbligo generale di sicurezza” stabilendo che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore“.
Questa norma, quindi, attribuisce al datore di lavoro privato il potere/dovere di adottare tutte le misure di prevenzione ritenute necessarie in relazione alle circostanze del caso concreto (cd. misure atipiche perchè non disciplinate espressamente dalla legge) - il “Testo unico” sulla salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) contiene la disciplina speciale, ossia indica tutte le misure di prevenzione tipiche che devono essere adottare dal datore di lavoro a fini di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, con la precisazione, ex art. 1 D.Lgs. 81, che si tratta di norme di legislazione statale concorrente ex art. 117 Cost volte a stabilire i livelli essenziali di tutela cui la disciplina regionale non può derogare.
- sulla scorta dei tre criteri indicati dall’art. 2087 c.c. (particolarità del lavoro, esperienza e tecnica) la giurisprudenza ha elaborato il principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile” (C.Cost. 475/1988). Ciò significa che il datore di lavoro deve adoperarsi per evitare o ridurre l’esposizione al rischio dei dipendenti al di là delle specifiche previsioni dettate dalla normativa prevenzionale, ossia andando anche oltre gli standard usualmente praticati se ritenuti non adeguati alla luce della miglior tecnologia (Cass. sez. lav., 21 settembre 2016, n. 18503; Cass. sez. lav., 30 giugno 2016, n. 13465). In altre parole, il datore di lavoro è tenuto ad una diligenza particolarmente qualificata ed in continua evoluzione.
- l’obbligo generale di sicurezza riveste, data la sua importanza quale diretta attuazione di principi costituzionali, riveste un ruolo centrale nel contratto di lavoro subordinato. Ne consegue che la violazione di tale obbligo rende automaticamente il datore di lavoro inadempiente con il conseguente diritto del lavoratore di rifiutare la propria prestazione lavorativa finchè permanga la situazione di pericolo (cfr. Cass. 11664/2006).
- l’obbligo generale di sicurezza previsto dall’art. 2087 c.c. è privo di sanzione, ossia la norma non prevede espressamente quali siano le conseguenze dell’inadempimento del datore di lavoro. E’ pacifico, comunque, che la responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’obbligo di sicurezza ha natura contrattuale. Ne consegue il diritto del lavoratore di chiedere
– l’adempimento dell’obbligazione di sicurezza;
– la risoluzione del rapporto per inadempimento (ex art. 1453 c.c.) oppure per giusta causa (ex art. 2119 c.c.)
– il risarcimento del danno subito.
Va, poi, sottolineato che la responsabilità del datore di lavoro può essere nello stesso tempo anche di natura extracontrattuale quando la condotta lesiva dell’obbligo di sicurezza sia vietata anche da norme diverse da quelle regolanti il contratto di lavoro subordinato (ad esempio norme penali). - l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, la cui gestione è affidata all’INAIL, copre il danno subito dal lavoratore in conseguenza dell’infortunio sul lavoro o della malattia causata dal lavoro indipendentemente dalla responsabilità civile (o penale) del datore di lavoro. La tutela assicurativa si estende, infatti, anche al caso in cui il danno sia conseguenza della condotta colposa dello stesso lavoratore infortunato.
Sulla base di tali premesse, devono essere letta la norma dettata dall’art. 42 comma 2 DL n. 18/2020 e la circolare esplicativa INAIL n. 13 del 03 aprile 2020.
Si deve, quindi, osservare che:
a) l’art. 42 comma 2 considera soggetti alla tutela INAIL propria degli infortuni sul lavoro “i casi accertati di infezione da coronavirus (Sars-Cov-2) in occasione di lavoro“.
Ciò significa, secondo la giurisprudenza, che il lavorato non deve aver necessariamente contratto l’infezione nell’espletamento delle sue mansioni lavorative tipiche perchè la “occasione di lavoro” comprende “… tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore” (Cass. 9913/2016), ivi compreso il cd. “infortunio in itinere” ossia verificatosi lungo il tragitto casa – lavoro (il che nel caso del coronavirus è una possibilità molto concreta soprattutto se il lavoratore utilizza mezzi pubblici per recarsi al lavoro).
b) le malattie infettive e parassitarie sono considerate infortunio sul lavoro ai fini della tutela INAIL, quando contratte in occasione di lavoro, sin dal 1995 (cfr. linee guida contenute nella circolare INAIL n. 74/1995).
Questo perchè l’INAIL ha da tempo superato la definizione normativa di infortunio contenuta nell’art. 2 comma 1 DPR 1124/1965 in forza della quale “l’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni” sulla base di norme risalenti alla metà degli anni novanta (la n. 74 del 23 novembre 1995) a loro volta frutto di un’interpretazione giurisprudenziale iniziata negli anni ottanta.
Tale estensione deriva dal fatto che, in quegli anni, la normativa INAIL vigente (ossia il Dpr. n. 1124/1965) prevedeva una tutela economica più vantaggiosa e più facilmente accessibile per gli infortuni professionali rispetto a quella prevista per le malattie contratte a causa o in occasione di lavoro. Per questo, le malattie infettive e parassitarie contratte in occasione e a causa di lavoro furono progressivamente equiparate ad infortunio con conseguente equiparazione della cd. “causa violenta” prevista dall’art. 2 comma 1 DPR 1124/1965 alla cd. “causa virulenta” (senza distinzione fra virus, batteri o parassiti);
Quindi, deve essere letta alla luce di tali considerazioni l’affermazione contenuta nella Circolare INAIL n. 13 del 03 aprile 2020 (” …in via preliminare si precisa che, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta.
In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto…”.
In altre parole, è l’INAIL stessa a precisare che l’inquadramento dell’infezione da Covid-19 quale infortunio sul lavoro viene effettuato SOLO A FINI ASSICURATIVI, ossia per garantire una maggior tutela al lavoratore ammalato e non, come erroneamente è stato inteso, per gravare il datore di lavoro di una maggiore responsabilità.
La Circolare n. 13 distingue, poi, in relazione al rischio di contagio, tre diverse tipologie di lavoratori:
a) gli operatori sanitari che sono esposti a “un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus“. Ciò significa che se un operatore sanitario contrae il virus, SI PRESUME che ciò sia accaduto in occasione di lavoro con conseguente operatività della copertura assicurativa INAIL;
b) i lavoratori che “operano a costante contatto con il pubblico e/o l’utenza“, ad esempio “lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc.”. Anche in questi casi opera la presunzione semplice di origine professionale del contagio come per gli operatori sanitari.
c) tutti gli altri lavoratori. In relazione a questi ultimi l’accertamento medico legale del contagio in occasione di lavoro avverrà secondo la procedura ordinaria “privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale“. Si tratta, precisa la circolare, di tutti quei casi “anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi gravi, precisi e concordanti tali da far scattare la presunzione semplice ai fini dell’accertamento medico legale“.
Chiarito il reale significato della norma dettata dall’art. 42 comma 2 DL. n. 18/2020 risulta accertato che esso NON comporta un’automatica estensione della responsabilità del datore di lavoro in quanto l’equiparazione tra causa violenta e virulenta vale ai soli fini assicurativi, ossia per assicurare la miglior tutela al massimo numero di persone.
Ciò significa che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., ossia per violazione dell’obbligo di sicurezza, rimane disciplinata nel modo ordinario, ossia:
– dal punto di vista civile secondo le regole contrattuali che pongono a carico del lavoratore l’onere probatorio di dimostrare il danno subito, la norma prevenzionale violata ed il nesso di causa tra violazione e danno ed a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il fatto, ossia di non essere colpevolmente inadempiente.
– dal punto di vista penale, invece, rimane a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare l’assenza di colpa ed il rispetto della normativa anti-infortunistica generale e speciale la cui violazione integra ed aggrava le fattispecie di reato dettate dal codice penale e dalle leggi speciali.
Concludendo, ci si deve chiedere se l’attuale situazione di emergenza imponga al datore di lavoro l’adozione di misure peculiari al fine di rispettare l’obbligo generale di sicurezza cui egli è tenuto ex art. 2087 c.c. e gli obblighi specifici previsti dal D.Lgs. n. 81.
La risposta è sicuramente positiva alla luce del principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, ma nel contempo è problematica in quanto il datore di lavoro si trova ad affrontare un rischio sconosciuto, ma che può comportare conseguenze gravissime (la morte del lavoratore), si diffonde con grande velocità, in modo subdolo e, ad oggi, non ancora chiaramente individuato.
Ci si deve, quindi, chiedere se il datore di lavoro, a fronte di tale situazione, sia tenuto a:
1) adottare nuove procedure di sicurezza con la massima urgenza
La risposta è sicuramente positiva e lo strumento da seguire è il “protocollo condiviso” stipulato dalle parti sociale con l’ausilio del Governo in data 14 marzo 2020, modificato il 24 aprile 2020 e, da ultimo, allegato sub n. 6 al DPCM del 26.04.2020 con cui il Governo ha dettato le regole per la cd. “fase 2”. di regolazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del Virus Covid-19.
2) rivedere il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR)
L’art. 29 D.Lgs. n. 81 prevede che:
“La valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata…in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione …
A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate.
Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, … nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali”.
L’interpretazione rigorosa della norma, quindi, porta alla revisione del DVR a seguito dell’adozione delle misure preventive “anti Covid-19”.
Va evidenziato, però, che vi sono anche opinioni contrarie, su tutte la Circolare della Regione Veneto del 2 marzo 2020 rubricata “COVID-19: indicazioni per la tutela della salute negli ambienti di lavoro non sanitari”, ove si precisa espressamente che non è necessario aggiornare il DVR in relazione al rischio da COVID-19, ad eccezione del caso in cui il rischio biologico sia un rischio di natura professionale già presente nel contesto espositivo dell’azienda.
Secondo la Regione Veneto, quinid, è sufficiente che il datore di lavoro rediga un piano di intervento o una procedura interna per la gestione dei “casi specifici”.
Tale conclusione è condivisibile nell’immediato, ossia nel pieno dell’emergenza, ma non pare sostenibile a lungo termine, ossia quando l’emergenza è passata e il datore di lavoro deve organizzare la propria attività tenendo presente la possibilità che una nuova ondata di contagi si presenti.
3) adottare particolare attenzione nell’informare i dipendenti quanto al rischio contagio
Anche in questo caso la risposta è positiva e le indicazioni pratiche sono contenute nel “protocollo condiviso”. La puntuale e chiara informazione ai lavoratori delle misure di sicurezza anti contagio è fondamentale per l’attuazione delle stesse e per la serenità dell’ambiente di lavoro, imprescindibile in un momento in cui tutti, lavoratori compresi, sono sottoposti ad un forte stress derivante dal timore della malattia e dalla forte limitazione delle normali libertà;
4) ristrutturare i luoghi di lavoro
Anche in questo caso la risposta è positiva e le indicazioni pratiche sono contenute nel “protocollo condiviso”. Va seguito, nell’attuazione di tali misure, un criterio molto pratico in modo da non renderle inutili. I lavoratori devono essere messi nella condizione di adeguarsi con naturalezza alla nuova conformazione dei luoghi di lavoro e, di conseguenza, alle nuove modalità di esecuzione della loro prestazione, in modo che le novità vengano facilmente assorbite e si sostituiscano, nel minor tempo possibile, alle precedenti consolidate abitudini.
5) rafforzare la tutela della riservatezza e la gestione dei dati
Trattandosi di una malattia, ogni dato relativo allo stato di salute del lavoratore, deve essere trattato con la massima attenzione in quanto trattasi di dato “sensibile” ai sensi di legge. Anche da questo punto di vista il “protocollo condiviso” deve essere recepito. In argomento, poi, deve essere fatta particolare attenzione perchè la raccolta di informazioni sullo stato di salute del lavoratore, e le eventuali circostanze del contagio, possono essere particolarmente invasive della sfera privata dello stesso che, soprattutto se malato, deve essere trattato con il massimo rispetto. Particolarmente delicate, quindi, sono tutte le misure relative al controllo della temperatura ed ai test diagnostici.
6) adeguare il modello 231
Naturale conseguenza dell’adozione di nuove misure di prevenzione a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, e del conseguente adeguamento del DVR, è l’aggiornamento del modello 231 aziendale.
In conclusione, si può affermare che l’emergenza coronavirus richiede a tutti i soggetti coinvolti nella tutela del lavoro uno sforzo notevole mirante al costante adeguamento delle misure di prevenzione a tutela della salute e della sicurezza del lavoro, pena la diffusione del contagio e l’emergere di responsabilità civili e penali in capo al soggetto negligente sia egli il dipendente che si reca al lavoro incurante delle proprie condizioni di salute rischiando così di contagiare altre persone, sia egli il datore di lavoro che, sottovalutando il rischio, omette di adottare le necessarie misure preventive.
(immagine tratta dalla copertina del “protocollo condiviso” tra le parti sociali edita da Confartigianato Veneto)